COME FUNZIONA LA PUBBLICITÀ – ARTICOLO

COME FUNZIONA la pubblicità (O Per lo meno, COME FUNZIONA oggi)

Come funziona la pubblicità? La risposta non è scontata né semplice. Per provare a capire come funziona la pubblicità, dobbiamo iniziare subito con un concetto che ai più suonerà forse inaspettato: la pubblicità non è il racconto delle caratteristiche di un prodotto. Ripetiamolo: la pubblicità non serve a descrivere né a decantare le virtù dei prodotti. Non dico che, in parte, non serva anche a questo. O che, almeno in passato, non abbia avuto anche questa funzione. Sostengo che non è questa la specificità della pubblicità. Il suo compito è più ampio, più sistematico, più articolato e costellato di responsabilità infinitamente maggiori. Qual è questo compito? Il compito della pubblicità è raccontare storie che entrino a far parte della collettività e indirizzino i rapporti che le persone hanno con un prodotto o con un servizio. A prima vista sembrerà forse una definizione astratta, me ne rendo conto, un’elucubrazione volutamente criptica per ammantare di mistero quella che il buon senso comune ci fa apparire come un’attività tutto sommato semplice e prosaica, dagli obiettivi evidenti: aiutare un’impresa a vendere prodotti. Non è così. Contribuire alle vendite è solo una porzione, o per meglio dire una conseguenza, di un tutto molto più ampio.

Come funziona la pubblicità, articolo di Diego Fontana

Come funziona la pubblicità – Un poster che è entrato di diritto nella storia della comunicazione

COME FUNZIONA LA PUBBLICITÀ: IL MITO DELLA RAZIONALITÀ

Ancora oggi siamo più o meno tutti vittime di un autoinganno che affonda le radici ben dentro i secoli e risale all’Illuminismo, quando abbiamo creduto, ingenuamente, di essere animali razionali: abbiamo scelto di credere che la nostra specificità fosse la razionalità. E ogni giorno cadiamo in questa trappola. Quando scegliamo un oggetto o prendiamo una decisione, tutti noi, almeno in parte, amiamo convincerci che lo abbiamo fatto seguendo un criterio lucido, misurabile, logico e razionale. Questa fede positivistica nelle nostre facoltà intellettuali fa cadere molti di noi in un tranello relativamente agli oggetti che scegliamo di possedere: ci fa credere che essi esistano e abbiano un significato a prescindere dalla relazione che hanno con una collettività. È a partire da questa impostazione che molti di noi – persino molti addetti ai lavori – finiscono per pensare che se un prodotto ha davvero qualità intrinseche, in fondo – in un modo o nell’altro – emergerà da sé. In fondo, ci diciamo, se il prodotto è buono, la pubblicità a che serve? Chi formula questi pensieri, li formula – come dicevamo poco sopra – perché si convince che il suo rapporto con i prodotti sia razionale: si racconta che quando sceglie un prodotto, sceglie davvero il prodotto migliore per lui, in base a caratteristiche oggettive e misurabili con criteri logici, del tutto spiegabili con la ragione. Immagina di scegliere, per l’inverno, la giacca che lo tiene più caldo al miglior costo possibile, o per l’estate la maglietta che lo tiene più fresco al miglior rapporto qualità/prezzo. Eppure quest’uomo che crede ciecamente nell’oggettività dei prodotti e delle sue scelte, è lo stesso uomo che si vergogna ad acquistare – poniamo – una giacca al mercato, non tanto perché è vittima della storia diffusa nella sua comunità, secondo la quale al mercato si trova merce scadente (anche per questo, certo), ma per una storia ancora più presente e solida che indirizza la sua relazione con il brand mercato verso emozioni negative: le persone che acquistano merce al mercato – si racconta nella comunità degli umani benestanti – hanno un basso tenore di vita, ed egli non vuole essere parte di quella storia. Dove è finita la razionalità della sua scelta? In fondo, non aveva solo bisogno di un semplice oggetto neutro che lo tenesse caldo, al miglior prezzo possibile? E allora, non basta andare al mercato e testare personalmente le caratteristiche delle giacche che troverà?

COME FUNZIONA LA PUBBLICITÀ: STORIE CHE PARLANO ALLE EMOZIONI

Quell’uomo – che naturalmente non è nessuno di noi 🙂 – si sente persino in colpa quando comprende che sta emergendo quell’altra parte di lui, quella che lo fa desiderare proprio e solo quella giacca, con quel taglio e quel colore e quella marca, perché inevitabilmente questa parte che emerge è in contraddizione netta e totale con la sua fede nella sua razionalità e nell’oggettività dei prodotti. Non ha niente di spiegabile a livello logico. È che, semplicemente, quella giacca, con quel taglio, quel colore e quella marca precisa che è proprio quella e non un’altra, lo emoziona, lo rassicura, lo fa sentire adeguato e lo fa stare bene con se stesso quando entra in relazione con gli altri. Ecco che stanno emergendo i veri fattori che guidano la scelta: le emozioni e, di certo, anche una parte che abita ancor più in profondità. È qui che agisce la pubblicità, al livello di queste emozioni: la scelta deriva da una storia che in qualche modo l’uomo ha percepito – anche se non ricorda dove e perché – su quella giacca: si tratta di una storia che è risuonata dentro di lui, che lo ha emozionato perché ha toccato le sue corde; una storia che ha indirizzato il rapporto emotivo che egli doveva avere con quella giacca.

se un oggetto esiste ma nessuno lo sa, quell’oggetto esiste?

Il fatto è proprio questo: gli oggetti hanno un senso – iniziano a esistere davvero – solo se entrano in una relazione con noi, solo cioè se si inseriscono in storie che risuonano dentro di noi, che ci sembrano interessanti e che, a forza di essere condivise, acquistano verità. Una birra non è una bevanda gialla frizzantina poco alcolica, ma è tutte le storie che la birra racconta di sé, da secoli e secoli: è la bevanda dell’iniziazione che segna per sempre un passaggio d’età, è la bevanda complice, da condividere nelle serate tra amici, è la bevanda prevalentemente maschile che porta con sé antichi echi di imprese da uomini. È tutte queste storie e molte altre ancora. E se non fosse queste storie che si amalgamano e diventano la sua identità, sarebbe solo atomi e, dunque, non sarebbe birra. D’altra parte, secondo una delle storie che fondarono la civiltà occidentale, il primo potere che Dio ci ha dato è stato quello di dare nomi alle cose, cioè di accenderle, di farle entrare in relazione con noi, di farle esistere nella nostra società. Ed è quasi certo, per esempio, che se gli sceneggiatori di Star Trek non avessero inventato il termine Black Hole, i buchi neri sarebbero rimasti confinati a fenomeno prettamente scientifico, da addetti ai lavori, e non sarebbero mai entrati nell’immaginario della cultura di massa, perché non avrebbero esercitato il fascino promesso da quel nome misterioso che ha spalancato loro le porte delle nostre storie. E se, ci dice Tullio De Mauro, in principio forse non è stato davvero il Verbo, di certo il linguaggio è facoltà creatrice determinante nell’uomo: “Non era e non è in principio la parola. Ma senza parole gli esseri umani sarebbero restati se non un mutum certo un più turpe pecus. (…) Tolta dal ruolo di solitaria autocratica sovrana degli inizi assoluti, la parola appare democratica partecipe di ogni forma di cultura che gli umani sanno elaborare nel tempo e nei luoghi loro concessi”.

Come funziona la pubblicità - articolo di Diego Fontana

Come funziona la pubblicità – Una sintesi perfetta

MA ALLORA, LE CARATTERISTICHE DEI PRODOTTI?

Le caratteristiche del prodotto, che la pubblicità non dimenticherà di indicare in corpo 8 o forse 7, in brochure e blog dedicati, servono nella maggior parte dei casi, nella società contemporanea, al massimo come una giustificazione razionale a posteriori. Ci servono per giustificare a noi stessi il nostro acquisto, per fare in modo che possiamo dirci, quando ripensiamo al denaro che abbiamo scelto di investire in quella decisione: Ho comprato quella giacca non solo perché mi emoziona, ma perché è anche ben progettata, con materiali tecnici di ultima generazione, leggera ma robusta e adatta persino a temperature a cui non la userò mai. Eppure, dentro di noi, in fondo in fondo, sappiamo molto bene che è una piccola bugia, un autoinganno: in realtà abbiamo scelto la storia che quel prodotto proietta su di noi (l’emozione che quel prodotto riverbera), non il prodotto in sé.

Detto in altre parole, noi amiamo tanto credere che il nostro processo sia questo:
• Mi serve un telefono > Lo vorrei con queste caratteristiche > L’Iphone ha proprio le caratteristiche che cerco.

In realtà il processo è questo:
• Desidero tanto un Iphone > Il prezzo è esorbitante > Il prodotto deve per forza avere caratteristiche che giustifichino questo prezzo.

E, specie dopo che quella cifra esorbitante l’abbiamo spesa, il nostro bisogno di credere che le caratteristiche di prodotto la giustifichino, diventa ancora più forte. Ci auto-convinciamo, e arriviamo a sostenerlo anche in accesi dibattiti con le persone che si relazionano con noi, che l’Iphone sia certamente un prodotto superiore a ogni altro. Ma perché, allo step 1 del processo, abbiamo desiderato proprio un Iphone? Per le sue caratteristiche? Certamente no. Per le emozioni che esercita su di noi la storia di Apple come brand rivoluzionario, che per primo ha dimostrato che l’informatica poteva essere terribilmente cool, tranciando di netto la polverosa relazione che legava computer, telefoni cellulari e altri apparecchi elettronici all’estetica nerd o geek. La storia di Apple – la capacità di creare una relazione completamente nuova tra informatica e coolness – comunicata attraverso tonnellate di pubblicità e interiorizzata dalla società, viene oggi diffusa e riverberata da chiunque scelga di acquistare un prodotto Apple. Come per la giacca di cui si diceva poco sopra: anche in questo caso scegliamo la storia che l’Iphone proietta su di noi – una storia che guida le emozioni che noi dobbiamo provare verso questo telefono (il primo telefono tremendamente cool) e nessun altro – e non le caratteristiche del prodotto in sé, salvo poi convincerci – a posteriori – del contrario.

Come funziona la pubblicità, articolo di Diego Fontana

Come funziona la pubblicità – Un celebre annuncio stampa di Apple

COME FUNZIONA LA PUBBLICITÀ: IL PRODOTTO ESISTE IN QUANTO STORIA

In questo senso, l’atto pubblicitario ante litteram più efficace, rivoluzionario e chiarificatore per comprendere appieno come funziona la pubblicità, è l’opera R. Mutt di Duchamp. Con il suo Ready-Made, l’artista scacchista sradicò un oggetto di ceramica bianca dalla sua storia quotidiana, che impediva a chiunque di osservarlo se non come mero strumento d’uso (un orinatoio), per inserirlo in una storia completamente differente: quella di un’esposizione museale. Ora, esposto su quel piedistallo, l’oggetto diventava realmente altro, e le relazioni che si creavano con le persone erano del tutto nuove. Ora l’oggetto in ceramica era parte di un’altra storia e le persone potevano osservarne caratteristiche che non avevano mai notato prima: in quanto opera d’arte, era possibile ammirarne l’eleganza e la grazia delle morbide curve, così come la bianchezza del materiale. L’oggetto in sé, l’oggetto come entità neutra, ci dice Duchamp, è solo una piccola parte della realtà, una parte la cui esistenza non è così solida né così interessante. La parte del leone la fa la storia in cui l’oggetto viene inserito. È la storia che lo fa esistere per le persone in un modo o nell’altro, guidando le relazioni che gli uomini avranno con quell’oggetto, a seconda di quello che viene raccontato. Ecco perché la pubblicità è prima di tutto creare relazioni tra persone e oggetti. Perché solo entrando in una relazione con noi, gli oggetti significano per noi.

Come funziona la pubblicità, articolo di Diego Fontana

Come funziona la pubblicità – R. Mutt, Duchamp

Come si può vedere, si tratta della stessa operazione che compì Bill Bernbach, quando si trovò alle prese con un’auto la cui sola storia che gli statunitensi erano pronti a vedere raccontava di una piccola, antipatica scatoletta di metallo progettata dagli odiati apparati delle SS. Proprio come Duchamp, Bernbach prese quell’oggetto, lo sradicò da quella storia, da quel tipo di relazione, e seppe raccontare un’altra storia, più emozionante, più vibrante, più interessante di quella precedente. In altre parole, più vera. Era nato il mito della Volkswagen come auto che bada al sodo, un’auto piccola ma meccanicamente perfetta, per una nuova generazione di americani meno spacconi, meno affascinati dalla pomposità, meno interessati a quello che gli altri avrebbero pensato della loro auto. Era una storia adatta a una generazione che voleva sentirsi nuova, libera, onesta, candida. Meno provinciale e più colta, meno texana e più europea; persone che adorarono l’idea di pensare in piccolo, perché erano stanche di tutta la retorica trita del grande sogno americano.

Come funziona la pubblicità

Come funziona la pubblicità – Il più influente annuncio del ventesimo secolo

COME FUNZIONA LA PUBBLICITÀ: VERITÀ E menzogna

Ma allora, se la pubblicità non riguarda specificamente il racconto delle caratteristiche di un prodotto e riguarda invece le relazioni che i prodotti, inclusi all’interno di storie, hanno con le persone, quando è che si può definire vera? E quando invece mente? Un pubblicitario può ideare qualsiasi storia, rispetto alla relazione tra una persona e un prodotto? No, certo che no. Ma la pubblicità, soprattutto quella contemporanea, non è quasi mai vera o falsa relativamente alle caratteristiche che dichiara di un prodotto (accade, in alcuni casi maldestri). La verità, rispetto alla pubblicità, va ricercata nella sostenibilità o meno della storia che viene raccontata da quel prodotto in relazione a una certa categoria di persone. La domanda corretta non è: Questa pubblicità dice che le Nike mi fanno saltare più in alto, ma sarà vero? Semplicemente perché, se ci pensate, vi accorgerete che non esiste traccia di campagne pubblicitarie Nike il cui fulcro sia una caratteristica di prodotto. Nella maggioranza dei casi troverete che le caratteristiche non vengono nemmeno menzionate. Non è su quel piano che va cercata la risposta, ma su quello delle storie che racconta. La domanda corretta è: La storia raccontata in questa pubblicità è sostenibile da questo prodotto? Un esempio: Levi’s ci ha raccontato per anni di essere un jeans con una forte connotazione trasgressiva. Le storie che raccontava guidavano la relazione che una generazione di adolescenti doveva avere con Levi’s verso il valore della trasgressione. Potevano permetterselo? Era un valore sostenibile da Levi’s? Queste sono domande significative, rispetto alla verità o falsità della pubblicità.

Nel caso specifico è stato il mercato a rispondere. Per anni Levi’s ha certamente potuto raccontare quelle storie, perché i jeans avevano realmente una forte carica di novità e rompevano gli schemi con lo stile di abbigliamento delle generazioni precedenti. Portare un paio di pantaloni che ancora trasudavano l’epica della working class nel contesto urbano era una piccola trasgressione estetica che evocava una trasgressione più ampia, una più profonda critica ai valori su cui poggiava la generazione precedente. Ma il successo e la diffusione mondiale di Levi’s e i cambiamenti nella società portarono sul finire degli anni Novanta il marchio a passare da simbolo della ribellione a standard mainstream. Ed ecco che le storie di giovani ribelli smisero di risuonare nel cuore delle persone. Non emozionavano più, perché non erano più sostenibili da Levi’s. Come potevano esserlo, se i Levi’s non erano più un prodotto scelto da chi voleva apparire come outsider, ma al contrario erano oramai diventati il jeans per eccellenza, quello che ogni bravo ragazzo doveva possedere e che riceveva in regalo per il compleanno da mamma e papà? In altre parole, quelle storie non erano più vere, di quel tipo di verità di cui abbiamo parlato sinora.

COME FUNZIONA LA PUBBLICITÀ: LA STORIA DIVENTA IL PRODOTTO

Se è sostenibile dal prodotto, interessante e corretta per il segmento di persone a cui si rivolge, la storia diventerà sempre più solida, più certa, più esistente per le persone, fino a che il legame storia-prodotto sarà indissolubile. Un esempio: abbiamo interiorizzato così fortemente le storie di Audi e Mercedes come auto sicure, che quando ci interessiamo all’acquisto di un’auto sicura di certo non pensiamo a Renault, anche perché – al contrario – non è questa la storia che conosciamo della casa automobilistica francese. E non è detto che non la conosciamo perché non sia vera. Al contrario: in determinati anni, per esempio, i test Euro Ncap hanno dimostrato che le auto Renault erano più sicure di Audi e Mercedes. Eppure la storia relativa alla sicurezza delle due prestigiose marche è troppo solida e certa perché persino voi, ora, crediate che Renault possa averle battute sol loro stesso terreno, nonostante questa sia la pura verità. I prodotti sono oramai diventati la loro storia: se volete un’auto sicura, e ci tenete che si sappia che sapete scegliere auto sicure, sceglierete un’Audi o una Mercedes. Anche se le prove oggettive dimostrano che Renault costruisce modelli almeno altrettanto sicuri. Dunque, dicevamo: come funziona la pubblicità? Ecco, come funziona la pubblicità: se e solo se la relazione che riesce a stabilire con le persone è solida, sostenibile, in grado di risuonare, allora sarà possibile parlare di caratteristiche di prodotto e magari di vendita. Ma, come si dice, meglio non mettere il carro davanti ai buoi.

 

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